domenica 29 novembre 2015

Un (s)oggetto meraviglioso

Nel mio percorso di ricerca ho trovato necessario confrontarmi con un po' di sociologia della famiglia e quindi mi sono comprato un manuale universitario particolarmente indicato in ottica didattica. Le autrici, una in particolare, sono piuttosto note, quindi una garanzia. Il testo è "Sociologia della famiglia" di Chiara Saraceno e Manuela Naldini, ed. Il Mulino. Tanti gli spunti incontrati e particolarmente apprezzabile la struttura del libro che ti accompagna in un excursus storico relativo ad alcune tematiche familiari anche molto attuali. Per motivi legati al mio interesse per la disabilità ho trovato fulminante per la sua apprente semplicità, il tema della fecondità della famiglia affrontato in una visione storica. E' stato come quando hai davanti agli occhi da tempo un soggetto e non lo vedi, si dice infatti "guardi ma non vedi" finchè qualcuno ti arriva a fianco e dice: "Eccolo lì". D'incanto compare ciò che era lì ad attendere la tua attenzione. Stessa cosa nel leggere il libro.
Difatti più o meno quotidianamente mi capita di parlare, anche in contesti informali, del tema dei figli e di quanto sia cambiato l'approccio alla genitorialità nelle ultime generazioni. Adesso ho aggiunto un tassello per me significativo e riguarda proprio l'idea di fecondità per come è cambiata nella famiglia negli ultimi secoli. Senza farla troppo lunga potrei riassumerla così: siamo passati dalla "ineluttabilità biologica" al "desiderio/scelta". Se è vero che, nell'ottocento i figli erano, nella famiglia-impresa rurale, forza lavoro, e quindi bisognava averne molti, con l'industrializzazione le cose sono cambiate. La famiglia si è "privatizzata" dice la Saraceno e si è anche ritirata socialmente ritagliandosi uno spazio più definito e separato, la famiglia nucleare. Si è passati dalla numerosità dei figli (che tra l'altro morivano più spesso e con loro a volte le madri) come fattore necessario alla vita della famiglia ad una visione dei figli e della infanzia in generale con categoria sociale a cui dare uno specifico valore, quindi da proteggere e da gestire in modo più qualitativo. In questo cambiamento il "controllo" delle nascite ha avuto un ruolo fondamentale. E qui viene la parte interessante. Inizialmente il controllo, per quanto parziale, è stato appannaggio degli uomini, attraverso la pratica del coitus interruptus, cosa che tra l'altro, ce ne fosse stato bisogno, tendeva ad affermare un potere maschile fortissimo nella relazione coniugale o di coppia. Poi, l'avvento di metodi anticoncezionali moderni (la "rivoluzione contraccettiva")ha distribuito in maniera più equa nella coppia la responsabilità e la consapevolezza del potere generativo che ognuno di noi possiede. Capitolo a parte anche se collegato sarebbe quello dell'aborto, intendibile come ulteriore passo verso l'emancipazione femminile dal ruolo esclusivamente materno. Storicamente questo ha permesso alle coppie o alle famiglie di esercitare un controllo più massiccio della fecondità, pur sempre, è bene ricordarlo, in funzione di controllo della numerosità dei figli. Cioè a dire: "figli sì, ma decido io quanti, e se non ne voglio più, ricorro all'anticoncezionale". Recentemente è avveunuto un altro passaggio, in termini sociologici,e più in generale culturali: siamo passati dalla "procreazione controllata" alla "procreazione intenzionalmente decisa" che Saraceno definisce come "seconda rivoluzione contraccettiva": "Non più una attenta sorveglianza e gestione della natura, il cui fine non è tanto la non procreazione quanto il suo controllo, bensì una situazione in cui lo stato normale per una coppia, ed in particolare per una donna adulta, è quello della non procreazione. Quest'ultima avverrebbe solo come conseguenza di un preciso, intenzionale atto di volontà". E qui casca l'asino. Il fatto che avere dei figli, oggi, sia frutto di un "calcolo" è una evidenza a cui è impossibile sottrarsi. Sempre più coppie giovani affermano, con ottimi argomenti, che avranno un figlio quando ci saranno "tutte" le condizioni per mantenerlo in modo dignitoso, come merita. Spesso le condizioni prevedono, tra le altre, una stabilità lavorativa di entrambi i componenti della coppia e una residenza di proprietà. E questo inevitabilmente, per l'aria che tira oggi, comporta uno slittamento del progetto genitoriale a data da destinarsi. E ciò viene consentito dalle possibilità contraccettive che oggi sono disponibili. Per di più, le attività di controllo vanno spesso oltre la "iniziale" programmazione contraccettiva, estendendosi ai sempre più dettagliati e precoci mezzi di screening fetale.
Sgombriamo il campo da possibili giudizi o considerazioni di valore. Gli schieramenti a favore o contro un ragionamento come quello appena espresso attengono alla sfera ideologica personale. Le variabili in campo sono molteplici e la cultura della famiglia è cambiata inevitabilmente. A me interessa un altro livello di approfondimento. D'accordo, i figli sono sempre più spesso frutto di una scelta molto ponderata, ma io ci aggiungerei, in accordo  pieno con Saraceno, anche qualcosa di altro: il tema del desiderio. Non è affatto scontato, anzi, che chi controlla la propria fecondità in modo preventivo attui una scelta che contrasta o nega, rimandandolo, il desiderio di genitorialità. Il desiderio di un figlio c'è, ma viene contenuto, gestito, dalla ragion pratica e dalla visione moderna delle priorità della vita. Allora poi forse, quando viene il tempo della scelta che prevede il desiderio e coincide con esso, magari dopo tanti sacrifici, quel desiderio può diventare diretta espressione della persona che lo prova, ed assume una intensità e potenza diversi dalla accettazione della nostra predisposizione biologica alla fertilità. Il figlio desiderato, finalmente, può diventare l'appagamento di un sogno personale, la realizzazione di un percorso dell'individuo o della coppia. La procreazione come fattore di continuità generazionale diventa in parte secondaria, si tratta di "tuo figlio/a", colui che soddisferà "il" desiderio. A riprova di questo assistiamo alla terribile frustrazione delle coppie che, nel momento in cui effettuano la scelta, non riescono a realizzarla, scontrandosi con i limiti che la natura, matrigna, a volta impone, anche qui con un effetto paradossale del retropensiero "lo desidero quindi lo ottengo", che assomiglia molto ad un atteggiamento di natura consumistica. Molto altro si potrebbe dire al riguardo, per esempio sulle tecniche di fecondazione assistita che intervengono in soccorso della scelta e del desiderio frustrati.
Voglio però tornare a quanto mi attiene da vicino, quindi il tema disabilità.
Se più spesso oggi di un tempo i figli sono emanazione di un desiderio e di una scelta, quanto materiale psicologico i genitori  identificano in quel frugoletto che arriva, finalmente, dopo tempo e lunghe considerazioni? Quanto è investito il nuovo arrivo di aspettative riguardanti la dimensione individuale e sociale della personalità di ognuno dei due partner? Se vogliamo andare sullo psicologico, quale tipo di investimento narcisistico viene convogliato dal genitore sulla procreazione ("produzione?!") di un figlio, che nel suo esserci, non da lui richiesto, ha la responsabilità di soddisfare? A volte l'investimento è così grande, che l'"esserci" semplicemente, di heideggeriana memoria, non è sufficiente e il figlio diventa un (s)oggetto speciale, meraviglioso, incorruttibile. Saraceno dice che nella società di oggi è ritenuta quasi inaccettabile la morte di un bambino. Un tempo era la triste normalità e se ne parlava come di ineluttabile componente del destino. Adesso la vita è veramente molto più prevedibile e pensare ad un bambino comporta quasi in automatico immaginare di vedergli compiere tutti quei passaggi del ciclo di vita che lo porteranno ad una vecchiaia lontana e serena.
Fatte queste premesse, che non vanno però generalizzate, quando nasce un bambino difettoso, che succede? Che fine fa quel desiderio? Quale ferita narcisistica comporta? In alcuni casi lui non era uno degli altri figli, quello sfigato, che, nel numero, ci sta. Lui era, doveva essere, meravigliosamente aderente al  "mio" sogno, esclusiva opportunità di realizzazione del "mio" desiderio, diretta emanazione del "mio" progetto, senza compromessi.
Immagino solamente quale fatica ciò comporti per un genitore, nella solitudine in cui si sente catapultato a gestire ciò che non era previsto, voluto, lontanamente immaginato. Il figlio del "desiderio rimandato" assume, nascendo, una forma reale, a volte già difficile da riconoscere, nel caso di disabilità una forma anche distorta, rimaneggiata, deficitaria. A volte le energie impiegate per "riparare" il sogno sono tantissime e distolgono lo sguardo da quello che c'è, anche di normale. C'è in gioco, tanto, tantissimo.

E, diversamente da un tempo, in cui le famiglie vivevano nella corte, insieme, i genitori con figli con disabilità non possono usufruire del cuscino sociale su cui appoggiarsi  rappresentato dalla vicinanza, anche fisica, di qualcuno che può esserci nelle incombenze concrete, ma anche nel supporto, un po' grezzo ma efficace, della condivisione delle faccende della vita, dello sguardo di comprensione che alleggerisce il peso del destino. E tutto è più difficile. La "performance" chiama; bisogna andare.

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