domenica 29 novembre 2015

Un nuovo modo di vedere i sogni.

Uno studio tutto italiano a firma di un team di ricercatori coordinato dal dottor Francesco Benedetti, Capo Unità Psichiatria e Psicobiologia Clinica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, una delle 18 strutture di eccellenza del Gruppo Ospedaliero San Donato, e da Armando D’Agostino, del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano, ha sviluppato un paradigma sperimentale innovativo per ottenere informazioni sulle aree cerebrali coinvolte nella rievocazione di sogni e fantasie.
La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Journal of Sleep Research, è stata svolta presso il Centro di Risonanza Magnetica ad Alto Campo dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. In una singola sessione di risonanza magnetica funzionale (fMRI) è stato chiesto ai soggetti coinvolti di confrontarsi con la narrazione delle proprie fantasie e dei propri sogni, raccolti in un diario durante il mese precedente. Durante la rievocazione di queste esperienze si attivano aree corticali specifiche dell’emisfero destro (giro frontale inferiore e giri temporali medio e superiore), associate alla creatività e all’immaginazione. La scoperta ha evidenziato che tali aree si attivano soltanto quando i soggetti rievocano le fantasie e si disattivano progressivamente durante la rievocazione dei sogni, che rimangono così incoerenti e incomprensibili anche nella veglia. I risultati ottenuti suggeriscono, quindi, che queste strutture fronto-temporali siano responsabili sia del mantenimento di una consequenzialità logica elevata, come nella veglia e nell’esperienza del fantasticare, sia del suo venire meno durante l’esperienza del sogno.

http://www.hsr.it/press-releases/fotografate-le-differenze-tra-sogno-e-fantasia/


Questi studi confermerebbero alcune linee di pensiero particolarmente interessanti, che ritengono il mondo dei sogni difficilmente accessibile alle strutture neuronali simboliche, anche quelle più slegate da aspetti logico formali e più libere di "fantasticare". Sembrerebbe dunque lecito pensare che l'attività onirica sfugga a qualsivoglia tentativo di comprensione logica o pseudologica, in quanto la simbolizzazione nel sogno, diversamente dalla fantasia, appare caotica e non legata ad alcuno schema coerente. La dimensione inconscia non sarebbe poi così evoluta come vorrebbe la psicoanalisi classica, e nemmeno così facilmente intellegibile (Lacan parlava di inconscio strutturato come un linguaggio). Classicamente nel sogno le difese meno attive porterebbero le persone a costruire narrazioni che tengono conto di impulsi e bisogni negati nella veglia e che sarebbero, sì distorte e parzialmente nascoste, tuttavia sufficientemente coerenti in termini simbolici da rendere il sogno "interpretabile". Le ipotesi dei ricercatori invece avvicinano il funzionamento onirico al delirio vero e proprio, in cui i nessi logici saltano, e tutto diventa possibile in maniere spesso lontane da qualsiasi possibile fantasia. "La dimensione "bizzarra" dei sogni e ancora più degli incubi risulterebbe dal tentativo del cervello di ridurre simbolicamente alcuni contenuti emotivi complessi per poterli archiviare nella memoria. Quando le emozioni sono molto intense sono più difficili da simbolizzare e quindi il sogno è più facile che assuma un carattere bizzarro" dice P. McNamara della Boston University. Che fare quindi di tutto il bagaglio interpretativo che a lungo ha permesso il lavoro di tanti terapeuti, a partire dal 1899 con la Traumdeutung di Freud? Rimane che il lavoro con i sogni è una importantissima chiave di accesso per il mondo emotivo delle persone, in cui il lavoro di analisi e comprensione può essere spostato su un versante psicotico, invece che nevrotico, come già alcuni psicoanalisti hanno fatto, tenendo conto di un livello di funzionamento più arcaico e meno strutturato, in cui le immagini, le vicissitudini ed i vissuti  del sogno costituiscono una elaborazione spesso parziale e frammentaria di emozioni intense e complesse.

Un (s)oggetto meraviglioso

Nel mio percorso di ricerca ho trovato necessario confrontarmi con un po' di sociologia della famiglia e quindi mi sono comprato un manuale universitario particolarmente indicato in ottica didattica. Le autrici, una in particolare, sono piuttosto note, quindi una garanzia. Il testo è "Sociologia della famiglia" di Chiara Saraceno e Manuela Naldini, ed. Il Mulino. Tanti gli spunti incontrati e particolarmente apprezzabile la struttura del libro che ti accompagna in un excursus storico relativo ad alcune tematiche familiari anche molto attuali. Per motivi legati al mio interesse per la disabilità ho trovato fulminante per la sua apprente semplicità, il tema della fecondità della famiglia affrontato in una visione storica. E' stato come quando hai davanti agli occhi da tempo un soggetto e non lo vedi, si dice infatti "guardi ma non vedi" finchè qualcuno ti arriva a fianco e dice: "Eccolo lì". D'incanto compare ciò che era lì ad attendere la tua attenzione. Stessa cosa nel leggere il libro.
Difatti più o meno quotidianamente mi capita di parlare, anche in contesti informali, del tema dei figli e di quanto sia cambiato l'approccio alla genitorialità nelle ultime generazioni. Adesso ho aggiunto un tassello per me significativo e riguarda proprio l'idea di fecondità per come è cambiata nella famiglia negli ultimi secoli. Senza farla troppo lunga potrei riassumerla così: siamo passati dalla "ineluttabilità biologica" al "desiderio/scelta". Se è vero che, nell'ottocento i figli erano, nella famiglia-impresa rurale, forza lavoro, e quindi bisognava averne molti, con l'industrializzazione le cose sono cambiate. La famiglia si è "privatizzata" dice la Saraceno e si è anche ritirata socialmente ritagliandosi uno spazio più definito e separato, la famiglia nucleare. Si è passati dalla numerosità dei figli (che tra l'altro morivano più spesso e con loro a volte le madri) come fattore necessario alla vita della famiglia ad una visione dei figli e della infanzia in generale con categoria sociale a cui dare uno specifico valore, quindi da proteggere e da gestire in modo più qualitativo. In questo cambiamento il "controllo" delle nascite ha avuto un ruolo fondamentale. E qui viene la parte interessante. Inizialmente il controllo, per quanto parziale, è stato appannaggio degli uomini, attraverso la pratica del coitus interruptus, cosa che tra l'altro, ce ne fosse stato bisogno, tendeva ad affermare un potere maschile fortissimo nella relazione coniugale o di coppia. Poi, l'avvento di metodi anticoncezionali moderni (la "rivoluzione contraccettiva")ha distribuito in maniera più equa nella coppia la responsabilità e la consapevolezza del potere generativo che ognuno di noi possiede. Capitolo a parte anche se collegato sarebbe quello dell'aborto, intendibile come ulteriore passo verso l'emancipazione femminile dal ruolo esclusivamente materno. Storicamente questo ha permesso alle coppie o alle famiglie di esercitare un controllo più massiccio della fecondità, pur sempre, è bene ricordarlo, in funzione di controllo della numerosità dei figli. Cioè a dire: "figli sì, ma decido io quanti, e se non ne voglio più, ricorro all'anticoncezionale". Recentemente è avveunuto un altro passaggio, in termini sociologici,e più in generale culturali: siamo passati dalla "procreazione controllata" alla "procreazione intenzionalmente decisa" che Saraceno definisce come "seconda rivoluzione contraccettiva": "Non più una attenta sorveglianza e gestione della natura, il cui fine non è tanto la non procreazione quanto il suo controllo, bensì una situazione in cui lo stato normale per una coppia, ed in particolare per una donna adulta, è quello della non procreazione. Quest'ultima avverrebbe solo come conseguenza di un preciso, intenzionale atto di volontà". E qui casca l'asino. Il fatto che avere dei figli, oggi, sia frutto di un "calcolo" è una evidenza a cui è impossibile sottrarsi. Sempre più coppie giovani affermano, con ottimi argomenti, che avranno un figlio quando ci saranno "tutte" le condizioni per mantenerlo in modo dignitoso, come merita. Spesso le condizioni prevedono, tra le altre, una stabilità lavorativa di entrambi i componenti della coppia e una residenza di proprietà. E questo inevitabilmente, per l'aria che tira oggi, comporta uno slittamento del progetto genitoriale a data da destinarsi. E ciò viene consentito dalle possibilità contraccettive che oggi sono disponibili. Per di più, le attività di controllo vanno spesso oltre la "iniziale" programmazione contraccettiva, estendendosi ai sempre più dettagliati e precoci mezzi di screening fetale.
Sgombriamo il campo da possibili giudizi o considerazioni di valore. Gli schieramenti a favore o contro un ragionamento come quello appena espresso attengono alla sfera ideologica personale. Le variabili in campo sono molteplici e la cultura della famiglia è cambiata inevitabilmente. A me interessa un altro livello di approfondimento. D'accordo, i figli sono sempre più spesso frutto di una scelta molto ponderata, ma io ci aggiungerei, in accordo  pieno con Saraceno, anche qualcosa di altro: il tema del desiderio. Non è affatto scontato, anzi, che chi controlla la propria fecondità in modo preventivo attui una scelta che contrasta o nega, rimandandolo, il desiderio di genitorialità. Il desiderio di un figlio c'è, ma viene contenuto, gestito, dalla ragion pratica e dalla visione moderna delle priorità della vita. Allora poi forse, quando viene il tempo della scelta che prevede il desiderio e coincide con esso, magari dopo tanti sacrifici, quel desiderio può diventare diretta espressione della persona che lo prova, ed assume una intensità e potenza diversi dalla accettazione della nostra predisposizione biologica alla fertilità. Il figlio desiderato, finalmente, può diventare l'appagamento di un sogno personale, la realizzazione di un percorso dell'individuo o della coppia. La procreazione come fattore di continuità generazionale diventa in parte secondaria, si tratta di "tuo figlio/a", colui che soddisferà "il" desiderio. A riprova di questo assistiamo alla terribile frustrazione delle coppie che, nel momento in cui effettuano la scelta, non riescono a realizzarla, scontrandosi con i limiti che la natura, matrigna, a volta impone, anche qui con un effetto paradossale del retropensiero "lo desidero quindi lo ottengo", che assomiglia molto ad un atteggiamento di natura consumistica. Molto altro si potrebbe dire al riguardo, per esempio sulle tecniche di fecondazione assistita che intervengono in soccorso della scelta e del desiderio frustrati.
Voglio però tornare a quanto mi attiene da vicino, quindi il tema disabilità.
Se più spesso oggi di un tempo i figli sono emanazione di un desiderio e di una scelta, quanto materiale psicologico i genitori  identificano in quel frugoletto che arriva, finalmente, dopo tempo e lunghe considerazioni? Quanto è investito il nuovo arrivo di aspettative riguardanti la dimensione individuale e sociale della personalità di ognuno dei due partner? Se vogliamo andare sullo psicologico, quale tipo di investimento narcisistico viene convogliato dal genitore sulla procreazione ("produzione?!") di un figlio, che nel suo esserci, non da lui richiesto, ha la responsabilità di soddisfare? A volte l'investimento è così grande, che l'"esserci" semplicemente, di heideggeriana memoria, non è sufficiente e il figlio diventa un (s)oggetto speciale, meraviglioso, incorruttibile. Saraceno dice che nella società di oggi è ritenuta quasi inaccettabile la morte di un bambino. Un tempo era la triste normalità e se ne parlava come di ineluttabile componente del destino. Adesso la vita è veramente molto più prevedibile e pensare ad un bambino comporta quasi in automatico immaginare di vedergli compiere tutti quei passaggi del ciclo di vita che lo porteranno ad una vecchiaia lontana e serena.
Fatte queste premesse, che non vanno però generalizzate, quando nasce un bambino difettoso, che succede? Che fine fa quel desiderio? Quale ferita narcisistica comporta? In alcuni casi lui non era uno degli altri figli, quello sfigato, che, nel numero, ci sta. Lui era, doveva essere, meravigliosamente aderente al  "mio" sogno, esclusiva opportunità di realizzazione del "mio" desiderio, diretta emanazione del "mio" progetto, senza compromessi.
Immagino solamente quale fatica ciò comporti per un genitore, nella solitudine in cui si sente catapultato a gestire ciò che non era previsto, voluto, lontanamente immaginato. Il figlio del "desiderio rimandato" assume, nascendo, una forma reale, a volte già difficile da riconoscere, nel caso di disabilità una forma anche distorta, rimaneggiata, deficitaria. A volte le energie impiegate per "riparare" il sogno sono tantissime e distolgono lo sguardo da quello che c'è, anche di normale. C'è in gioco, tanto, tantissimo.

E, diversamente da un tempo, in cui le famiglie vivevano nella corte, insieme, i genitori con figli con disabilità non possono usufruire del cuscino sociale su cui appoggiarsi  rappresentato dalla vicinanza, anche fisica, di qualcuno che può esserci nelle incombenze concrete, ma anche nel supporto, un po' grezzo ma efficace, della condivisione delle faccende della vita, dello sguardo di comprensione che alleggerisce il peso del destino. E tutto è più difficile. La "performance" chiama; bisogna andare.

Fratello unico

Un libro trovato per caso su uno scaffale di una libreria che sta per chiudere. Il titolo suona interessante anche perchè contiene una parola per me magica: "fratello". Ed ecco che entra prepotentemente nella toplist dei libri del momento visto che ho la cattiva abitudine di praticare la lettura in parallelo. L'argomento è quello giusto e noto e mi stupisco di non avere sentito parlare prima del libro. Karl parla in prima persona di sè e della sua esperienza con il fratello di Noah, autistico a basso funzionamento nato a metà degli anni sessanta. Si trattava di un periodo di scoperta della sindrome, che adesso, anche in considerazione di una diffusione consistente viene affrontata con metodi e terapie tra i più diversi e controversi, da quelli cognitivo comportamentali alle diete specifiche. Allora l'autismo era un campo di studio pressochè vergine con poche esperienze di cura efficace e molti  punti interrogativi senza una risposta. Nel libro una parte sicuramente interessante riguarda lo sforzo della famiglia di Karl e Noah di trovare una cura efficace per l'autismo attraverso l'inevitabile pellegrinaggio  da uno specialista ad un altro. E' così che possiamo accedere alla prospettiva di un genitore che a quei tempi si arrabattava, per fortuna non senza spirito critico, tra le varie proposte terapeutiche. Infatti i genitori di Karl sono "costretti" a fre i conti con i potenziali sensi di colpa generati dall'approccio psicodinamico di Bettelheim (La Fortezza vuota, 1967) volto a ricondurre gli esiti della sindrome ad una rapporto disfunzionale nella diade madre bambino, in cui "sentimenti materni di indifferenza, negativi o ambivalenti, si presentano quali spiegazioni dell'autismo infantile".  Oppure come pionieri della terapia ABA di Lovaas, scandinavo precursore degli approcci cognitivo comportamentali (compreso l'uso di avversivi fisici o elettroshock). Karl descrive in modo molto competente la fioritura di approcci per una sindrome pressochè sconosciuta ed incompresa (come oggi?).
Karl e Noah oggi
Veramente significativo il vissuto di sibling che si viene a dipanare nel racconto fino ad arrivare al disincanto della speranza che incontra la realtà. (sono volutamente vago per non svelare troppo la trama). Inoltre, Karl, pur descrivendo in modo chiaro le sue vicissitudini tipiche del sibling, non si definisce mai come prototipo del fratello, ma anzi assume un atteggiamento singolare: ci tiene molto ed a più riprese a sottolineare il fatto che lui è Karl con una propria identità indipendente dal fatto di essere fratello di Noah; non vuole essere "ridotto al fratello di...", anche se in alcuni casi potrebbe fargli molto comodo, ad esempio nel significare (o giustificare) la sua attrazione prima e dipendenza poi dalle sostanze stupefacenti. Karl non cerca scuse per la sua adolescenza turbolenta che ad un certo punto addirittura porta i genitori ad essere più preoccupati per lui che per Noah, anche se riconosce il fatto che la vita di famiglia sia stata condizionata pesantemente dall'autismo di suo fratello. In ogni caso ci tiene alla propria identità e se ne assume fino in fondo la responsabilità. Il finale va scoperto ma può bastare dire che Karl non smette, ancora oggi, di testimoniare la condizione di un autistico grave adulto e della mancanza di risorse e di attenzione per questa categoria di persone con disabilità.

Per chi vuole approfondire trova su YouTube un video documentario sulla famiglia di Karl e Noah girato a più riprese a distanza di molti anni. Alcune dichiarazioni sono sconvolgenti. Lo trovate sotto "60 Minutes Noah, part 1 e 2".

Il Tempo della psicoterapia. Parte 2. Metodi.

Inevitabile, almeno per me, che a fronte di quanto mi ha risuonato la lettura di Paris (vedi parte 1), pensare a come tradurre operativamente nella pratica clinica le riflessioni e gli spunti che si sono "impigliati". Se è vero che negli ultimi tempi ho rivolto energie all'approfondimento di tematiche psicodinamiche (seguirà un blog dedicato anche a questo e per esempio vedi In attesa del padre), rimango saldamente ancorato, ancora di più dopo la lettura di Paris, alle radici analitico transazionali. In un momento storico come quello che stiamo vivendo, infatti, mi pare che il pensiero e l'intuizione di Eric Berne sia di estrema attualità. In un passaggio significativo del suo libro (pag. 59) Paris fa riferimento ad alcune ricerche con l'obbiettivo di rilevare i meccanismi di cambiamento che agiscono durante la terapia. Alcuni fattori "non specifici" si sono rivelati  i più importanti; in maniera del tutto trasversale alle diverse forme di psicoterapia della parola, i fattori che aiutano maggiormente i pazienti sono: 1) un accordo ben definito 2) una forte alleanza 3) l'incoraggiamento iniziale 4) il focus sui problemi attuali e sulle relazioni interpersonali.
Queste ricerche mi hanno fatto molto riflettere. Mi pare quasi superfluo sottolineare (non lo è mai in verità) quanto le ricerche citate indichino nei punti di forza dell'analisi transazionale i fattori "non specifici" alla base del cambiamento in psicoterapia. Andiamo per ordine: nel punto 1 si sottolinea l'importanza di un accordo bene definito; questo fattore diventa attuale anche perchè anche la psicoterapia ed il suo metodo risentono della "cultura del narcisismo" in cui si alternano le polarità opposte ed identiche di idealizzazione e svalutazione. Capita sovente che alcuni pazienti arrivino in terapia con aspettative magiche e con una ipervalutazione del terapeuta inteso alla stregua di un "Guru" che attraverso pratiche sorprendenti ed intuizioni folgoranti possa risolvere tutti i problemi. Lo stesso terapeuta, che in realtà si arrabatta nello sforzo di mantenere una posizione paritaria e di valorizzazione delle competenze del paziente, finisce nel breve periodo per scivolare nella categoria delle persone banali che non mantengono le promesse. Tale percorso mentale, spesso infatti il salto dalle stelle alle stalle viene più agito che verbalizzato, porta ad una sospensione o ad una interruzione prematura ed improvvisa della relazione terapeutica. Va da se che un approccio alla terapia che preveda un percorso poco definito nel tempo e negli obbiettivi facilita questo tipo di esito, favorendo dinamiche che potremmo definire di "Gioco" (Berne 1964). Anche per questi motivi Berne aveva pensato, distanziandosi dalla psico analisi "interminabile", ad un lavoro terapeutico basato su un accordo ed "un esplicito impegno bilaterale per un ben definito corso d'azione", cioè il contratto (Berne 1966). Il contratto è stabilito, da un punto di vista transazionale, con la porzione disponibile dell'Adulto del paziente e definisce gli obbiettivi e le priorità del lavoro terapeutico che in ogni caso devono essere chiari, concreti, raggiungibili, misurabili. Anche i tempi della terapia sono per Berne definibili anche se non rigidi; la rinegoziazione è sempre possibile, tuttavia il punto di arrivo stabilito, anche esso coerente con gli obbiettivi di lavoro individuati, è l'occasione di verificare il lavoro terapeutico svolto. Questo modo di operare offre al paziente un orizzonte di impegno e di investimento a medio termine, senza l'esigenza di affidarsi al "guru" per tempi indefiniti e con la possibilità di sentirsi protagonista del proprio percorso. Ultimamente si parla di "pazienti imprenditori" facendo riferimento a quei pazienti che gestiscono anche la propria psicoterapia in termini che definiremmo manageriali, cercando a lungo su internet oppure chiedendo primi colloqui gratuiti per "sondare" il terapeuta, senza limitarsi alla prima indicazione, chiedendo referenze e indicazioni curricolari come garanzia di serietà e competenza. Un approccio che tende a spiazzare il terapeuta tradizionale abituato a dettare le regole del setting da una posizione non negoziale; non dimentichiamo che fino a poco tempo fa era pratica abituale di alcuni psicoanalisti considerare le proprie vacanze come unico momento di sospensione della terapia (con il risultato che se il paziente andava in vacanza in momenti diversi doveva pagare le sedute a cui non era presente).
I punti 2 e 3 vorrei accomunarli perchè si riferiscono entrambe alle fasi iniziali di un percorso terapeutico, quando la persona porta la propria sofferenza ed è più in difficoltà: in Analisi Transazionale potremmo parlare di una parte bambina che cerca un ascolto ed un conforto. Si tratta di un momento importante della terapia, quello dedicato all'accoglienza della persona che ha bisogno di sentirsi accettata e di sapere che può sviluppare, nel contesto terapeutico, un rapporto di fiducia. Quest'ultima è favorita dal vincolo di riservatezza, tipico del setting terapeutico, che tuttavia non è sufficiente a generare fiducia se non viene assistito da ascolto attivo ed atteggiamento empatico da parte del terapeuta. Il terapeuta è a disposizione non con il ruolo di Salvatore che può risolvere tutti i problemi attraverso consigli e strategie vincenti, ma in quanto fedele alleato nella scoperta di ciò che fa stare meglio, con particolare attenzione alla dimensione etica.
Al giorno d'oggi poi, nell'ambito della cultura del narcisismo osserviamo sempre più spesso il fatto che le persone richiedono la consulenza terapeutica in momenti di crisi, quando la sovra-struttura narcisistica cede e le certezze su cui la persona ha basato la propria stabilità vengono meno. Si tratta di un momento di rottura, in cui alcuni eventi della vita (delusioni lavorative o personali, sconfitte, esposizioni sociali) riportano la persona in contatto con la propria vulnerabilità. Per alcuni è una esperienza molto difficile, quasi intollerabile e la sua inaccettabilità, anche in termini di vergogna sociale, li spinge a trovare un rifugio "sicuro" nella stanza della terapia. In queste situazioni l'incoraggiamento diventa un buon modo di costruire alleanza e curare, almeno in prima battuta, le ferite (narcisistiche) che la vita ha imposto. Il terapeuta è chiamato ad un sano equilibrismo tattico terapeutico nell'offrire, contemporaneamente, il sostegno ed il conforto per il Bambino ferito coniugato ad un atteggiamento di valutazione adulta dell'accaduto, che aiuta la persona a non idealizzare la terapia, per poi svalutarla in seguito. Per molte persone l'obbiettivo inconsapevole del lavoro terapeutico coincide con il recupero dell'equilibrio perduto e con la ricostruzione della corazza narcisistica che avevano smesso per un po', sentendosi nudi e vulnerabili. Per altro una valutazione co-costruita tra paziente e terapeuta del momento di crisi può rappresentare, in alcuni casi, l'occasione per guardare alle cose in modo diverso,  con una prospettiva, per così dire, decentrata. Ciò può essere molto utile per alcuni, nella misura in cui le proprie difficoltà possono essere considerate frutto di re-azioni degli altri ad un atteggiamento egoistico o di sfruttamento delle relazioni. Ma questo è già molto in termini di cambiamento terapeutico.
Il punto quarto è già comparso all'orizzonte: il presente e le sue criticità sono il focus di attenzione su cui concentrare le energie di cambiamento. Loomis ["I contratti di cambiamento", Neopsiche, 1990] parlerebbe di "contratto di controllo sociale" riferendosi al lavoro terapeutico su situazioni di difficoltà che richiedono alcune ristrutturazioni cognitive ed emotive, che in AT definiamo decontaminazioni, al fine di individuare opzioni efficaci nel qui e ora per risolvere problemi contingenti. Si tratta di un lavoro terapeutico  che solitamente segue o si sovrappone alla costruzione di una alleanza terapeutica ed alla individuazione di obbiettivi contrattuali.
Anche il lavoro sulle relazioni interpersonali è ancorato al presente ed ha lo scopo di rendere maggiormente efficaci i rapporti che la persona in terapia intrattiene nella propria vita sociale, familiare, lavorativa attraverso un'analisi adulta e consapevole di alcune modalità comunicative disfunzionali e ripetitive e l'individuazione e la sperimentazione di modalità maggiormente adattive. Lo scopo ultimo rimane quello di consentire al paziente di mantenere, modificare, aumentare o nella peggiore delle ipotesi ri-costruire il proprio "capitale sociale". Loomis qui parlerebbe di "contratto di relazione" quello che aiuta a diventare consapevoli dei propri stili relazionali per vivere relazioni soddisfacenti. Qualche psicoterapeuta a questo punto potrebbe obbiettare che i punti indicati da Paris possono essere oggetto di terapia di qualità e tuttavia oggi sono inquadrabili anche come campo d'azione di altre discipline, come ad esempio il counselling. Probabilmente Paris in questa sua concezione unisce due aspetti: primo una visione della terapia di tipo anglosassone (lui lavora in Canada) che non prevede una distinzione così netta tra psicoterapia e counselling come ad esempio nella legislazione italiana o nel mondo AT; secondo, una idea della terapia "che funziona" orientata a modelli cognitivo comportamentali, sufficientemente lontana dalla matrice psicodinamica, culturalmente più vicina al vecchio continente. E' "tutta" qui la psicoterapia? Da analista transazionale non posso non notare che da sempre nel mondo AT hanno convissuto, a partire dalla precoce scomparsa del fondatore Berne, anime diverse, che hanno sottolineato di volta in volta le diverse sfaccettature dell'impronta teorica originale; se è vero che Berne aveva preso le distanze dal mondo della psicoanalisi, in cui si era formato, costruendo un nuovo modo di concepire la terapia definibile come "psichiatria sociale", con un evidente enfasi sul lavoro incentrato sulla funzionalità adulta, è altrettanto vero che nei suoi scritti non ha mai abbandonato del tutto l'idea che una parte del lavoro terapeutico, quello del cambiamento profondo, fosse nonostante tutto appannaggio e di tecniche terapeutiche della psicoanalisi come ad esempio l'interpretazione. Anime diverse segnano anche i tempi di una evoluzione della teoria e della clinica della Analisi Transazionale, che mi piace pensare come un corpus vitale, in continua evoluzione; queste riflessioni mi rimandano forte la sensazione che il pensiero di Berne sia ancora di molto attuale e moderno, e mi conferma che il padre dell'AT fosse un vero precursore.
Il libro di Paris invita noi terapeuti a raccogliere una nuova sfida, che ci appartiene in quanto abbiamo necessità di collocare il nostro lavoro nel nostro tempo, anche inteso come tempo storico: "Il principio più importante è che la psicoterapia è un intervento sociale condotto in un contesto sociale".

Come definire quindi i confini  e le caratteristiche di una psicoterapia moderna, che non solo possa essere coerente con se stessa e con la propria storia, ma anche attuale, nel senso di utile alle esigenze delle persone di oggi?