Nel mio percorso di
ricerca ho trovato necessario confrontarmi con un po' di sociologia della
famiglia e quindi mi sono comprato un manuale universitario particolarmente
indicato in ottica didattica. Le autrici, una in particolare, sono piuttosto
note, quindi una garanzia. Il testo è "Sociologia della famiglia" di
Chiara Saraceno e Manuela Naldini, ed. Il Mulino. Tanti gli spunti incontrati e
particolarmente apprezzabile la struttura del libro che ti accompagna in un excursus
storico relativo ad alcune tematiche familiari anche molto attuali. Per motivi
legati al mio interesse per la disabilità ho trovato fulminante per la sua
apprente semplicità, il tema della fecondità della famiglia affrontato in una
visione storica. E' stato come quando hai davanti agli occhi da tempo un
soggetto e non lo vedi, si dice infatti "guardi ma non vedi" finchè
qualcuno ti arriva a fianco e dice: "Eccolo lì". D'incanto compare
ciò che era lì ad attendere la tua attenzione. Stessa cosa nel leggere il
libro.
Difatti più o meno
quotidianamente mi capita di parlare, anche in contesti informali, del tema dei
figli e di quanto sia cambiato l'approccio alla genitorialità nelle ultime
generazioni. Adesso ho aggiunto un tassello per me significativo e riguarda
proprio l'idea di fecondità per come è cambiata nella famiglia negli ultimi
secoli. Senza farla troppo lunga potrei riassumerla così: siamo passati dalla
"ineluttabilità biologica" al "desiderio/scelta". Se è vero
che, nell'ottocento i figli erano, nella famiglia-impresa rurale, forza lavoro,
e quindi bisognava averne molti, con l'industrializzazione le cose sono
cambiate. La famiglia si è "privatizzata" dice la Saraceno e si è
anche ritirata socialmente ritagliandosi uno spazio più definito e separato, la
famiglia nucleare. Si è passati dalla numerosità dei figli (che tra l'altro
morivano più spesso e con loro a volte le madri) come fattore necessario alla
vita della famiglia ad una visione dei figli e della infanzia in generale con
categoria sociale a cui dare uno specifico valore, quindi da proteggere e da
gestire in modo più qualitativo. In questo cambiamento il "controllo"
delle nascite ha avuto un ruolo fondamentale. E qui viene la parte
interessante. Inizialmente il controllo, per quanto parziale, è stato
appannaggio degli uomini, attraverso la pratica del coitus interruptus, cosa
che tra l'altro, ce ne fosse stato bisogno, tendeva ad affermare un potere
maschile fortissimo nella relazione coniugale o di coppia. Poi, l'avvento di
metodi anticoncezionali moderni (la "rivoluzione contraccettiva")ha
distribuito in maniera più equa nella coppia la responsabilità e la
consapevolezza del potere generativo che ognuno di noi possiede. Capitolo a
parte anche se collegato sarebbe quello dell'aborto, intendibile come ulteriore
passo verso l'emancipazione femminile dal ruolo esclusivamente materno.
Storicamente questo ha permesso alle coppie o alle famiglie di esercitare un
controllo più massiccio della fecondità, pur sempre, è bene ricordarlo, in
funzione di controllo della numerosità dei figli. Cioè a dire: "figli sì,
ma decido io quanti, e se non ne voglio più, ricorro
all'anticoncezionale". Recentemente è avveunuto un altro passaggio, in
termini sociologici,e più in generale culturali: siamo passati dalla
"procreazione controllata" alla "procreazione intenzionalmente
decisa" che Saraceno definisce come "seconda rivoluzione
contraccettiva": "Non più una attenta sorveglianza e gestione della
natura, il cui fine non è tanto la non procreazione quanto il suo controllo,
bensì una situazione in cui lo stato normale per una coppia, ed in particolare
per una donna adulta, è quello della non procreazione. Quest'ultima avverrebbe solo
come conseguenza di un preciso, intenzionale atto di volontà". E qui casca
l'asino. Il fatto che avere dei figli, oggi, sia frutto di un
"calcolo" è una evidenza a cui è impossibile sottrarsi. Sempre più
coppie giovani affermano, con ottimi argomenti, che avranno un figlio quando ci
saranno "tutte" le condizioni per mantenerlo in modo dignitoso, come
merita. Spesso le condizioni prevedono, tra le altre, una stabilità lavorativa
di entrambi i componenti della coppia e una residenza di proprietà. E questo
inevitabilmente, per l'aria che tira oggi, comporta uno slittamento del
progetto genitoriale a data da destinarsi. E ciò viene consentito dalle
possibilità contraccettive che oggi sono disponibili. Per di più, le attività
di controllo vanno spesso oltre la "iniziale" programmazione
contraccettiva, estendendosi ai sempre più dettagliati e precoci mezzi di
screening fetale.
Sgombriamo il campo da
possibili giudizi o considerazioni di valore. Gli schieramenti a favore o contro
un ragionamento come quello appena espresso attengono alla sfera ideologica
personale. Le variabili in campo sono molteplici e la cultura della famiglia è
cambiata inevitabilmente. A me interessa un altro livello di approfondimento.
D'accordo, i figli sono sempre più spesso frutto di una scelta molto ponderata,
ma io ci aggiungerei, in accordo pieno
con Saraceno, anche qualcosa di altro: il tema del desiderio. Non è affatto
scontato, anzi, che chi controlla la propria fecondità in modo preventivo attui
una scelta che contrasta o nega, rimandandolo, il desiderio di genitorialità.
Il desiderio di un figlio c'è, ma viene contenuto, gestito, dalla ragion
pratica e dalla visione moderna delle priorità della vita. Allora poi forse,
quando viene il tempo della scelta che prevede il desiderio e coincide con
esso, magari dopo tanti sacrifici, quel desiderio può diventare diretta
espressione della persona che lo prova, ed assume una intensità e potenza
diversi dalla accettazione della nostra predisposizione biologica alla
fertilità. Il figlio desiderato, finalmente, può diventare l'appagamento di un
sogno personale, la realizzazione di un percorso dell'individuo o della coppia.
La procreazione come fattore di continuità generazionale diventa in parte secondaria,
si tratta di "tuo figlio/a", colui che soddisferà "il"
desiderio. A riprova di questo assistiamo alla terribile frustrazione delle coppie
che, nel momento in cui effettuano la scelta, non riescono a realizzarla,
scontrandosi con i limiti che la natura, matrigna, a volta impone, anche qui
con un effetto paradossale del retropensiero "lo desidero quindi lo
ottengo", che assomiglia molto ad un atteggiamento di natura consumistica.
Molto altro si potrebbe dire al riguardo, per esempio sulle tecniche di
fecondazione assistita che intervengono in soccorso della scelta e del
desiderio frustrati.
Voglio però tornare a
quanto mi attiene da vicino, quindi il tema disabilità.
Se più spesso oggi di un
tempo i figli sono emanazione di un desiderio e di una scelta, quanto materiale
psicologico i genitori identificano in
quel frugoletto che arriva, finalmente, dopo tempo e lunghe considerazioni? Quanto
è investito il nuovo arrivo di aspettative riguardanti la dimensione
individuale e sociale della personalità di ognuno dei due partner? Se vogliamo
andare sullo psicologico, quale tipo di investimento narcisistico viene
convogliato dal genitore sulla procreazione ("produzione?!") di un
figlio, che nel suo esserci, non da lui richiesto, ha la responsabilità di
soddisfare? A volte l'investimento è così grande, che l'"esserci"
semplicemente, di heideggeriana memoria, non è sufficiente e il figlio diventa
un (s)oggetto speciale, meraviglioso, incorruttibile. Saraceno dice che nella
società di oggi è ritenuta quasi inaccettabile la morte di un bambino. Un tempo
era la triste normalità e se ne parlava come di ineluttabile componente del
destino. Adesso la vita è veramente molto più prevedibile e pensare ad un
bambino comporta quasi in automatico immaginare di vedergli compiere tutti quei
passaggi del ciclo di vita che lo porteranno ad una vecchiaia lontana e serena.
Fatte queste premesse, che
non vanno però generalizzate, quando nasce un bambino difettoso, che succede?
Che fine fa quel desiderio? Quale ferita narcisistica comporta? In alcuni casi
lui non era uno degli altri figli, quello sfigato, che, nel numero, ci sta. Lui
era, doveva essere, meravigliosamente aderente al "mio" sogno, esclusiva opportunità
di realizzazione del "mio" desiderio, diretta emanazione del "mio"
progetto, senza compromessi.
Immagino solamente quale
fatica ciò comporti per un genitore, nella solitudine in cui si sente
catapultato a gestire ciò che non era previsto, voluto, lontanamente immaginato.
Il figlio del "desiderio rimandato" assume, nascendo, una forma
reale, a volte già difficile da riconoscere, nel caso di disabilità una forma
anche distorta, rimaneggiata, deficitaria. A volte le energie impiegate per
"riparare" il sogno sono tantissime e distolgono lo sguardo da quello
che c'è, anche di normale. C'è in gioco, tanto, tantissimo.
E, diversamente da un
tempo, in cui le famiglie vivevano nella corte, insieme, i genitori con figli
con disabilità non possono usufruire del cuscino sociale su cui appoggiarsi rappresentato dalla vicinanza, anche fisica,
di qualcuno che può esserci nelle incombenze concrete, ma anche nel supporto,
un po' grezzo ma efficace, della condivisione delle faccende della vita, dello
sguardo di comprensione che alleggerisce il peso del destino. E tutto è più
difficile. La "performance" chiama; bisogna andare.