lunedì 16 marzo 2020

Fragilità diffusa

Cari colleghi, In questo nuovo scenario, sanitario, sociale ed economico, dettato della pandemia di coronavirus, la diffusione globale del rischio rende inevitabilmente più sfumati i confini tra “curanti”” e curati”.
Diversamente da altri momenti critici in cui è più facile definire chi è in difficoltà e chi è nelle migliori condizioni psicologiche, fisiche e ambientali per essere di aiuto, come ad esempio durante un terremoto, un incidente aereo, una alluvione, in questo momento storico penso sia difficile per chiunque collocarsi in una “zona di sicurezza” da cui potere dare il proprio contributo. Penso ad esempio a tutto il personale medico ed infermieristico che con abnegazione e generosità presta servizio negli ospedali e nei presidi medici; tutte queste persone sono continuamente esposte al contagio e, per di più, la sera tornano a casa dalle loro famiglie, senza sapere se portano con sé il rischio di farle ammalare. I dubbi, le preoccupazioni e il senso di precarietà sono trasversali, travalicano in modo a volte subdolo e pernicioso i confini di ruolo e si impadroniscono della tranquillità o a volte della parziale incoscienza con cui i curanti affrontano le crisi al fine di aiutare le persone che hanno più bisogno. Capita quindi che anche i medici, gli educatori e gli psicologi e psicoterapeuti abbiano la mente legittimamente occupata dalla preoccupazione rivolta alla propria famiglia, ai genitori anziani, ai figli, alle amicizie o conoscenze con problematiche sanitarie pregresse; Chi poi tra noi terapeuti non lavora in strutture pubbliche o in aziende, vede in modo poco chiaro i risvolti anche economici di questa situazione drammatica, che impatta anche su tutte le attività che coinvolgono i gruppi di lavoro (formazioni, supervisioni, gruppi di terapia), attività che inevitabilmente vengono rimandate a “data da destinarsi”. Tutto questo genera una sensazione che definirei di “fragilità diffusa” e che indubbiamente colpisce anche noi terapeuti (mi ci metto dentro io per primo) e che potrebbe, legittimamente, depotenziare i curanti in un momento in cui è forse ancora più importante mettere al servizio della comunità le proprie competenze e la propria esperienza nel lavoro con la relazione d’aiuto.
Che fare quindi? Come potere gestire una fisiologica ambivalenza ed una richiesta implicita dei pazienti (nel mio caso a volte esplicita) a non mollare, ad essere la base sicura a cui si possono affidare, ancora di più, in un momento di difficoltà come questo? Non ho una ricetta, ma voglio condividere quello che mi è venuto da fare quasi spontaneamente, senza accorgermene: stare ancora più in contatto con i colleghi, evitare di aggiungere all’isolamento preventivo richiesto anche quello “professionale”, confrontarsi anche più di prima rispetto a modalità di lavoro nuove, gestione dei pazienti, e, che non guasta, scambiare un saluto disinteressato, come modo di stare in contatto, ridurre le distanze, attivare momenti di ascolto, di conforto e solidarietà. Perché in fondo, in questo momento, non è così strano e sbagliato sentirsi ed essere, anche da terapeuti, “troppo umani”.

lunedì 9 marzo 2020

Il virus della solidarietà

L’emergenza coronavirus solleva tante questioni non solo sanitarie. Dal punto di vista sociale, la reazione della gente comune alle notizie spesso diffuse in modo poco adeguato, se non allarmistico, è stata intensa e molto diversificata, con molte sfaccettature comprese tra i poli  incuranza-panico. Dal mio punto di vista non è possibile catalogare i comportamenti delle persone, anche quelli più apparentemente irrazionali, per via della scarsa conoscenza del fenomeno che impone anche agli esperti di virologia molte cautele e poche certezze su cui orientare l’opinione pubblica. Per fare un esempio, sulla questione vaccini la comunità scientifica si è espressa in modo unanime e compatto, esiste una qualche “verità” a cui fare riferimento, e diventa più facile definire le posizioni sull’argomento accettabili o meno. Mi sembra importante, in questo clima di incertezza, che la posizione predominante ed istituzionale sia improntata alla prevenzione ed al contenimento del fenomeno epidemico, almeno fino a quando non sia individuata una profilassi che permetta di evitare l’affollamento dei reparti di terapia intensiva e la riduzione dei decessi.
Gli effetti di tale posizione istituzionale, basata anche sul mero dato numerico e sul calcolo di opportunità, sono molti e coinvolgono tutti i campi della vita sociale, produttiva ed economica del paese. Volendo scorgere in questo panorama a tratti desolante alcuni spunti positivi e di opportunità, credo sia importante sottolineare il fatto che il contenimento della diffusione del virus “costringe” le persone ad alzare lo sguardo oltre il proprio orizzonte individuale.
Per molti infatti le richieste e le restrizioni imposte dai protocolli nazionali o regionali sono vissute come distanti, almeno psicologicamente, dal proprio interesse particolare, non sono misure in cui viene percepita una emergenza diretta ed immediata. La richiesta implicita nella adesione a tali misure è di pensare ad altri che non siano nella nostra stretta cerchia di riferimento, ad altri che non conosciamo e che non conosceremo mai; inoltre il pensare a questi “altri” comporta per molti una privazione anche significativa di alcune libertà individuali, o un danno importante sul fronte economico e della redditività a breve termine (nel caso di un prolungamento della situazione sarà inevitabile trovare un bilanciamento tra le esigenze produttive e la necessità di contenimento del virus). Questo esercizio forzato di rinunciare al (molto) proprio a favore di altri lontani da noi è inconsueto nella società odierna, una società in cui, per prendere ad esempio il tema dei cambiamenti climatici, se brucia l’Australia, le persone in Italia rimangono dispiaciute il tempo del servizio televisivo sul koala bruciacchiato e poco più. La globalizzazione dei problemi non appare essere un elemento decisivo nel generare una reazione empatica o sensibile da parte delle persone concentrate sulle questioni della loro cerchia di interesse. Il coronavirus e la sua rapida diffusione ci offre quindi una opportunità sociale di spostare l’attenzione, anche se per poco, verso un orizzonte comunitario, in cui il benessere non è solo quello individuale ma un interesse collettivo a cui siamo tutti chiamati a concorrere. Si tratta di una sfida da raccogliere e che personalmente spero possa spostare anche parzialmente gli equilibri sociali in una direzione in cui la solidarietà verso chi è più debole ed in difficoltà, a prescindere che sia un parente o un amico, diventa una priorità ed un pensiero che abbraccia un orizzonte comunitario.

lunedì 18 gennaio 2016

Disabilità "al maschile"


Lavorare con le famiglie di persone con disabilità è spesso per me occasione di incontrare uomini e donne straordinari.
Non è una novità che più spesso le occasioni di riflessione e di sostegno, sopratutto incontesto di gruppo, siano colte dalle figure di sesso femminile. Di solito i maschi si "tengono alla larga" dai gruppi di auto-mutuo-aiuto o dalle occasioni di scambio con altri genitori o parenti o vengono trascinati a forza dalle controparti femminili. Quando mi è capitato di incontrare padri e compagni nei percorsi formativi o nei gruppi di sostegno ho sempre pensato che avere a disposizione una visione maschile della questione disabilità fosse una risorsa importante, se non indispensabile.
Ma perchè, fatte le debite virtuose eccezioni, è così difficile per i padri partecipare a momenti di scambio e di sostegno con altri che vivono esperienze simili? Da padre e terapeuta mi sono dato nel tempo alcune risposte, basate sulle occasioni di incontro e sul confronto con colleghi e colleghe che si occupano di disabilità. La maggior parte delle risposte sono frutto di pregiudizi, contaminazioni che tendono a generalizzare ed a irrigidire posizioni potenzialmente più flessibili.
Vediamone insieme alcune.

"Meglio fare che raccontare"
Il maschile è notoriamente più operativo e concreto che riflessivo e comunicativo; lo so che sembra una banalità, la scoperta dell'acqua calda oppure una frase tratta da "gli uomini vengono da marte e le donne da venere". Tuttavia c'è una parte di verità nell'essere, uomini e donne, diversi oltre che culturalmente anche filogeneticamente. Di fronte alle difficoltà ed i problemi da risolvere, l'atteggiamento maschile è decisamente più improntato all'azione ed alla soluzione pratica delle questioni legate al problema. E questo per quanto negli ultimi decenni le le differenze di genere si sono molto uniformate fino a presentarci uomini e donne come quasi "intercambiabili".  Spesso l'uomo agisce, ancora prima di avere chiaro l'obbiettivo da perseguire; l'impulso interviene nel definire prioritaria la traduzione in gesto concreto del bisogno di fare e risolvere.
Quante volte ho sentito donne lamentarsi della scarsa disponibilità del partner al confronto dialettico, oppure della propensione dell'uomo a fare, senza prima consultarsi o riflettere insieme su un piano condiviso. Per molti uomini, parlare delle cose è una perdita di tempo, ed anche le riunioni al lavoro sono molte volte vissute in modo negativo.
Qualcuno pensa che la ritrosia maschile nei riguardi del confronto dialettico sia da attribuire alla consapevolezza di avere competenze linguistiche limitate se paragonate alla media femminile: "Non mi ci metto neanche a parlare con lei! Ha sempre la parola giusta al momento giusto ed alla fine mi tocca darle ragione!".
Se queste sono le premesse, immagino che per molti trovarsi in un contesto di gruppo a maggioranza femminile a parlare delle proprie difficoltà sia una prospettiva quantomeno delicata.

"Mi piego ma non mi spezzo"
L'immaginario sociale del maschile è ancora fortemente improntato alla visione dell'uomo che "non deve chiedere mai", tutto di un pezzo, che non molla di fronte alle difficoltà. Lo sguardo maschile è più spesso rivolto all'esterno e per questo si definisce "estroflesso".  Raccontarsi, parlare di sè in modo introspettivo e non semplicemente descrittivo e superficiale è un compito mai banale, e per alcuni uomini a volte una novità. Prendersi come oggetto del proprio osservare, al di là di un primo strato esterno che può facilmente coincidere con le apparenze, prevede una capacità che alcuni hanno molto sviluppata, mentre per altri è un esercizio molto complesso.
A volte alcuni uomini e papà per sfuggire agli inviti di condivisione di gruppo si trincerano dietro alla frase: "Non so cosa dire, non ho niente da dire". Ma sarà poi vero? Oppure si tratta di non avere dimestichezza con un lessico ed un mondo, quello interiore, che invece è molto denso e ricco?

Emozioni, queste sconosciute
Per alcuni uomini il mondo emotivo è appannaggio del "gentil sesso". E spesso le emozioni vengono identificate come la parte fragile di noi stessi; per questo vanno nascoste, delegittimate e addirittura negate, sopratutto in contesti a rischio di valutazione o critica. Anche qui si tratta di agire più che comunicare. Quindi i maschi sarebbero più inclini a movimentare la propria rabbia come protesta verso le ingiustizie del "sistema società", si tengono attivi e propositivi, lavorano il doppio del solito per non contattare la propria fragilità umorale, la tristezza incombente, e  a volte si tengono lontani da pensieri futuri o troppo lontani nel tempo per evitare la paura dell'ignoto.

Sarà poi cosi vero ed attuale questo panorama del maschile nei confronti delle occasioni di confronto e sostegno in tema di disabilità?
Secondo me le cose sono cambiate negli ultimi anni ed ho visto molti padri coinvolti e partecipi del percorso dei propri figli con disabilità e consapevoli del proprio fondamentale ruolo, che va oltre il "mantenimento" del nucleo familiare.
Penso sia tempo di andare oltre questi clichè e pregiudizi.
E' per questo che ho pensato alla opportunità di un gruppo di confronto, da me condotto, dedicato  alla "disabilità al maschile". Se è vero che i padri possono essere maggiormente coinvolti, mi pare giusto consentire loro di farlo inizialmente in una indispensabile zona di comfort: tra di loro. Se esiste ancora una visione maschile, forse ancora un po' vittima dei pregiudizi di cui sopra, questa va inizialmente assecondata, non combattuta. Parlare tra padri significa anche trovare un contesto in cui la visione del "virile" e della sua messa in scacco nella disabilità, può trovare uno spazio di comprensione più semplice ed immediato. E' inutile negare che alcuni livelli di complicità tra persone dello stesso genere, a volte sono funzionali alla messa in gioco personale e a generare un senso di appartenenza. Quante volte il bisogno di un sano "cameratismo" spinge uomini di tutte le età a partecipare a momenti di condivisione al maschile, ad esempio nello spogliatoio del calcetto o, più classicamente, al bar dello sport? Questo può riguardare anche un tema delicato e complesso come la disabilità?
Questa è la scommessa che intendo raccogliere.
Tra Marzo e Giugno 2016 ho organizzato alcune serate con momenti di condivisione di gruppo dedicate solo ai papà o ai maschi con parenti con disabilità (nonni, fratelli adulti, zii).
Ci troveremo a parlare "al maschile" di cosa significa vivere la disabilità e, spero, molto altro ancora nel mio studio di Milano.Chi è interessato può contattarmi alla mail del blog. Numero di posti limitato.

lunedì 11 gennaio 2016

Family Centered Care

Materiale divulgativo della McMaster University
 sui Family Centered Services
In alcune realtà del mondo anglosassone, la cura centrata sulla famiglia (Family Centered Care)  è diventato un modo di approcciare la disabilità. Alcuni autori e ricercatori che hanno approfondito la filosofia e la metodologia della FCC lavorano alla Mc Master University di Ontario in Canada. L'idea di una Cura Centrata sulla famiglia deriverebbe, in termini filosofici, dal modello psicologico dello psicoterapeuta Carl Rogers che negli anni '50 parlava di terapia "centrata sul cliente". In seguito "negli anni 60 è stata fondata negli USA l’Association for the Care of Children’s Health (ACCH), con l’obiettivo di promuovere la filosofia dell’approccio di cura centrato sulla famiglia (family-centered care)". 
Nel tempo le definizioni di FCC si sono susseguite e all'argomento sono stati dedicati alcuni testi fondamentali come il  "Big Red" del 1987, così chiamato per via della copertina rossa del volume. 
Più recentemente  il gruppo di CanChild ha fornito una definizione dei servizi centrati sulla famiglia (Family Centered Services) a cui ci sentiamo particolarmente vicini e che utilizziamo come riferimento quando parliamo di approccio "family centered":
"Il Servizio Centrato sulla famiglia è costituito da un insieme di valori, attitudini ed approcci rivolti ai servizi per bambini con disabilità ed alle loro famiglie. 
- Il Servizio Centrato sulla famiglia riconosce il fatto che ogni famiglia è unica;
- Riconosce il fatto che la famiglia è la costante nella vita del bambino con disabilità
- Riconosce che la famiglia è esperta in tema di abilità e di bisogni del bambino
- La famiglia lavora a stretto contatto con gli operatori ed i professionisti per prendere decisioni consapevoli riguardo i servizi ed il supporto che il bambino e la famiglia possono ricevere.
- Nei Servizi Centrati sulla Famiglia vengono presi in considerazione le risorse ed i bisogni di tutti  i membri della famiglia." 

Molte ricerche hanno permesso di validare questo approccio e di considerarlo efficace nel sostegno alle persone con disabilità e alle loro famiglie. In particolare sono stati riscontrati effetti positivi sulla riduzione e la gestione dei livelli di stress nella famiglia con conseguente miglioramento della qualità della vita del sistema e della persona con disabilità. Se pensiamo alla definizione di FCS della Can Child ci pare particolarmente importante la considerazione presente nell'ultima frase "vengono prese in considerazione le risorse ed i bisogni di tutti  i membri della famiglia" perchè allarga l'orizzonte d'interesse dei servizi anche ai genitori ed i fratelli delle persone con disabilità. Anche i siblings ad esempio, in questo approccio, possono uscire dalla nebbia della loro normalità in cui sono spesso confinati da un destino "favorevole" e rivendicare bisogni inespressi o inesprimibili ed anche risorse da mettere in comune per il buon funzionamento della famiglia. Il fatto che sia sancita in modo ufficiale la loro presenza come interlocutori dei servizi, in quanto parte della famiglia, li smarca dal ruolo di riserva, eterni "panchinari" in attesa del proprio turno.

Dalla teoria alla pratica, difficili equilibri

Nel tempo ci siamo accorti di quanto sia difficile, almeno nel contesto italiano, passare da una dichiarazione di intenti ad una prassi che possa concretamente interpretare il pensiero e la filosofia della Family Centered Care. Molti operatori e servizi che si occupano di disabilità dichiarano di avere la famiglia come interlocutore privilegiato e ad alcuni appare quasi banale e scontato il concetto di FCC. Quando poi si tratta di declinare nelle proprie consuetudini e nella quotidianità del proprio operare la visione "family centered" le cose non appaiono poi così semplici. In alcuni casi "prendersi cura della famiglia" coincide con l'idea di trovare una terreno di scambio e di collaborazione tra servizi e famiglia in cui la famiglia "aderisce" in modo consapevole e attivo alle indicazioni degli esperti. In altre parole il fatto di costruire un buon rapporto tra servizi e  famiglia deriverebbe per molti dalla necessità di ottenere la migliore "compliance" terapeutica possibile, il che significa il recepimento da parte della famiglia delle soluzioni proposte dagli esperti e il mantenimento di un compito concordato. Questo modo di lavorare, che pure comporta un importante movimento di riconoscimento della famiglia come potenziale alleato nel percorso terapeutico della persona con disabilità, non è riconducibile ad un approccio family centered. Infatti la famiglia, anche se non è intesa  alla stregua di un "ostacolo" al perseguimento degli obbiettivi terapeutici, tuttavia rimane "portatrice sana" di indicazioni di altri, effettivi detentori del sapere. Non è nemmeno utile, a mio parere , un sovvertimento totale del ruolo medico-paziente come è riscontrabile in alcuni approcci come ad esempio nella "pedagogia dei genitori". Secondo questa filosofia di collaborazione sarebbero i genitori a dare indicazioni ai terapisti ed agli operatori su come gestire la disabilità del proprio caro, attraverso veri e propri momenti formativi. Ognuno ha le proprie competenze che vanno rispettate: sia chi ha studiato ed ha esperienza clinica, sia  chi vive in modo spontaneo ed autentico la disabilità come sfida del quotidiano. E' anche vero che il confine di una giusta collaborazione tra famiglia ed esperti nel caso della disabilità ha i contorni maggiormente sfumati. Questo è dovuto al fatto che la disabilità permea la vita della famiglia in alcuni casi scandendone ritmi, tempi, priorità, umori, ruoli, in modo da coinvolgere tutto il quotidiano dei suoi membri. E' quindi normale che alcune scelte ed indicazioni terapeutiche possano incidere in modo profondo sulle dinamiche della famiglia nel suo intero. Gli esperti devono essere consapevoli dell'impatto che con le loro prescrizioni hanno sull'intero funzionamento familiare: laddove si cerca di migliorare le condizioni della persona con disabilità possono innescarsi forti reazioni di fatica e di stress di altri componenti della famiglia. Certo in alcuni casi vale anche il contrario e la famiglia è completamente dedita ai programmi di riabilitazione che prevedono una continuità di esercizio che può essere garantita solo da uno sforzo globale dei care givers, con regole di comunicazione o di gestione dei tempi del quotidiano profondamente modificate ad arte. 
Altre volte si parla di "abilitazione" della famiglia alla riabilitazione, oppure di "parent training", intendendo la necessità che sia la famiglia stessa a diventare esperta della tecnica terapeutica da somministrare alla persona con disabilità. Questione assai delicata. Come distinguere allora, lo spazio di presa di decisione che appartiene alla famiglia, che ha il diritto ad autodeterminare le proprie regole di funzionamento, e lo spazio di prescrizione terapeutica che ha le sue regole, che talora possono richiedere di andare oltre il trattamento specificatamente fornito dall'esperto? In questo complesso panorama diventa difficile tracciare un solco netto tra le competenze professionali e quelle spontanee, e pensiamo che tale confine possa essere indicato solo alla luce della valutazione dei singoli casi. Rimane sicuramente chiaro per noi che ogni eccesso porta uno sbilanciamento nella dinamica familiare: sia che la famiglia si professionalizzi, sia che deleghi all'esperto anche decisioni riguardanti  il proprio funzionamento di famiglia. 

Vedere le risorse di tutti

A nostro avviso la FCC può essere di aiuto nel trovare quel precario equilibrio tra le polarità descritte perchè pone l'accento sul fatto che tutte le risorse disponibili possano dialogare e collaborare nell'interesse della famiglia. Vedere le risorse significa considerare la famiglia  esperta del proprio funzionamento e competente nella gestione della vita di tutti i giorni e dello stress che comporta la presenza di una persona con disabilità. La famiglia, portatrice di un insieme di bisogni che riguardano tutti i suoi membri, è ritenuta capace di prendere decisioni sulla base di tutti questi bisogni (cosa che peraltro fa quotidianamente). La famiglia è, nella stragrande maggioranza dei casi, orientata al benessere ed alla cura della persona con disabilità; ha bisogno che questo processo anche terapeutico sia compiuto in modo compatibile con il benessere e la cura degli altri membri della famiglia, compresi i siblings. La famiglia, se bene informata, è in grado di prendere decisioni in base alle  priorità che si è data in quel momento della sua vita familiare.

D'altro canto vedere le risorse significa anche che i professionisti esprimono il proprio parere frutto delle proprie competenze specifiche e della loro esperienza e possono fornire tutte le informazioni utili alla famiglia nel suo percorso di  presa di decisione. I professionisti hanno fiducia nelle risorse della famiglia e sono orientati al rispetto ed al sostegno delle decisioni che la famiglia nel suo complesso è in grado di esprimere; al contempo evitano di colludere ed illudere essendo chiari ed espliciti sulla propria posizione professionale.

domenica 29 novembre 2015

Un nuovo modo di vedere i sogni.

Uno studio tutto italiano a firma di un team di ricercatori coordinato dal dottor Francesco Benedetti, Capo Unità Psichiatria e Psicobiologia Clinica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, una delle 18 strutture di eccellenza del Gruppo Ospedaliero San Donato, e da Armando D’Agostino, del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano, ha sviluppato un paradigma sperimentale innovativo per ottenere informazioni sulle aree cerebrali coinvolte nella rievocazione di sogni e fantasie.
La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Journal of Sleep Research, è stata svolta presso il Centro di Risonanza Magnetica ad Alto Campo dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. In una singola sessione di risonanza magnetica funzionale (fMRI) è stato chiesto ai soggetti coinvolti di confrontarsi con la narrazione delle proprie fantasie e dei propri sogni, raccolti in un diario durante il mese precedente. Durante la rievocazione di queste esperienze si attivano aree corticali specifiche dell’emisfero destro (giro frontale inferiore e giri temporali medio e superiore), associate alla creatività e all’immaginazione. La scoperta ha evidenziato che tali aree si attivano soltanto quando i soggetti rievocano le fantasie e si disattivano progressivamente durante la rievocazione dei sogni, che rimangono così incoerenti e incomprensibili anche nella veglia. I risultati ottenuti suggeriscono, quindi, che queste strutture fronto-temporali siano responsabili sia del mantenimento di una consequenzialità logica elevata, come nella veglia e nell’esperienza del fantasticare, sia del suo venire meno durante l’esperienza del sogno.

http://www.hsr.it/press-releases/fotografate-le-differenze-tra-sogno-e-fantasia/


Questi studi confermerebbero alcune linee di pensiero particolarmente interessanti, che ritengono il mondo dei sogni difficilmente accessibile alle strutture neuronali simboliche, anche quelle più slegate da aspetti logico formali e più libere di "fantasticare". Sembrerebbe dunque lecito pensare che l'attività onirica sfugga a qualsivoglia tentativo di comprensione logica o pseudologica, in quanto la simbolizzazione nel sogno, diversamente dalla fantasia, appare caotica e non legata ad alcuno schema coerente. La dimensione inconscia non sarebbe poi così evoluta come vorrebbe la psicoanalisi classica, e nemmeno così facilmente intellegibile (Lacan parlava di inconscio strutturato come un linguaggio). Classicamente nel sogno le difese meno attive porterebbero le persone a costruire narrazioni che tengono conto di impulsi e bisogni negati nella veglia e che sarebbero, sì distorte e parzialmente nascoste, tuttavia sufficientemente coerenti in termini simbolici da rendere il sogno "interpretabile". Le ipotesi dei ricercatori invece avvicinano il funzionamento onirico al delirio vero e proprio, in cui i nessi logici saltano, e tutto diventa possibile in maniere spesso lontane da qualsiasi possibile fantasia. "La dimensione "bizzarra" dei sogni e ancora più degli incubi risulterebbe dal tentativo del cervello di ridurre simbolicamente alcuni contenuti emotivi complessi per poterli archiviare nella memoria. Quando le emozioni sono molto intense sono più difficili da simbolizzare e quindi il sogno è più facile che assuma un carattere bizzarro" dice P. McNamara della Boston University. Che fare quindi di tutto il bagaglio interpretativo che a lungo ha permesso il lavoro di tanti terapeuti, a partire dal 1899 con la Traumdeutung di Freud? Rimane che il lavoro con i sogni è una importantissima chiave di accesso per il mondo emotivo delle persone, in cui il lavoro di analisi e comprensione può essere spostato su un versante psicotico, invece che nevrotico, come già alcuni psicoanalisti hanno fatto, tenendo conto di un livello di funzionamento più arcaico e meno strutturato, in cui le immagini, le vicissitudini ed i vissuti  del sogno costituiscono una elaborazione spesso parziale e frammentaria di emozioni intense e complesse.

Un (s)oggetto meraviglioso

Nel mio percorso di ricerca ho trovato necessario confrontarmi con un po' di sociologia della famiglia e quindi mi sono comprato un manuale universitario particolarmente indicato in ottica didattica. Le autrici, una in particolare, sono piuttosto note, quindi una garanzia. Il testo è "Sociologia della famiglia" di Chiara Saraceno e Manuela Naldini, ed. Il Mulino. Tanti gli spunti incontrati e particolarmente apprezzabile la struttura del libro che ti accompagna in un excursus storico relativo ad alcune tematiche familiari anche molto attuali. Per motivi legati al mio interesse per la disabilità ho trovato fulminante per la sua apprente semplicità, il tema della fecondità della famiglia affrontato in una visione storica. E' stato come quando hai davanti agli occhi da tempo un soggetto e non lo vedi, si dice infatti "guardi ma non vedi" finchè qualcuno ti arriva a fianco e dice: "Eccolo lì". D'incanto compare ciò che era lì ad attendere la tua attenzione. Stessa cosa nel leggere il libro.
Difatti più o meno quotidianamente mi capita di parlare, anche in contesti informali, del tema dei figli e di quanto sia cambiato l'approccio alla genitorialità nelle ultime generazioni. Adesso ho aggiunto un tassello per me significativo e riguarda proprio l'idea di fecondità per come è cambiata nella famiglia negli ultimi secoli. Senza farla troppo lunga potrei riassumerla così: siamo passati dalla "ineluttabilità biologica" al "desiderio/scelta". Se è vero che, nell'ottocento i figli erano, nella famiglia-impresa rurale, forza lavoro, e quindi bisognava averne molti, con l'industrializzazione le cose sono cambiate. La famiglia si è "privatizzata" dice la Saraceno e si è anche ritirata socialmente ritagliandosi uno spazio più definito e separato, la famiglia nucleare. Si è passati dalla numerosità dei figli (che tra l'altro morivano più spesso e con loro a volte le madri) come fattore necessario alla vita della famiglia ad una visione dei figli e della infanzia in generale con categoria sociale a cui dare uno specifico valore, quindi da proteggere e da gestire in modo più qualitativo. In questo cambiamento il "controllo" delle nascite ha avuto un ruolo fondamentale. E qui viene la parte interessante. Inizialmente il controllo, per quanto parziale, è stato appannaggio degli uomini, attraverso la pratica del coitus interruptus, cosa che tra l'altro, ce ne fosse stato bisogno, tendeva ad affermare un potere maschile fortissimo nella relazione coniugale o di coppia. Poi, l'avvento di metodi anticoncezionali moderni (la "rivoluzione contraccettiva")ha distribuito in maniera più equa nella coppia la responsabilità e la consapevolezza del potere generativo che ognuno di noi possiede. Capitolo a parte anche se collegato sarebbe quello dell'aborto, intendibile come ulteriore passo verso l'emancipazione femminile dal ruolo esclusivamente materno. Storicamente questo ha permesso alle coppie o alle famiglie di esercitare un controllo più massiccio della fecondità, pur sempre, è bene ricordarlo, in funzione di controllo della numerosità dei figli. Cioè a dire: "figli sì, ma decido io quanti, e se non ne voglio più, ricorro all'anticoncezionale". Recentemente è avveunuto un altro passaggio, in termini sociologici,e più in generale culturali: siamo passati dalla "procreazione controllata" alla "procreazione intenzionalmente decisa" che Saraceno definisce come "seconda rivoluzione contraccettiva": "Non più una attenta sorveglianza e gestione della natura, il cui fine non è tanto la non procreazione quanto il suo controllo, bensì una situazione in cui lo stato normale per una coppia, ed in particolare per una donna adulta, è quello della non procreazione. Quest'ultima avverrebbe solo come conseguenza di un preciso, intenzionale atto di volontà". E qui casca l'asino. Il fatto che avere dei figli, oggi, sia frutto di un "calcolo" è una evidenza a cui è impossibile sottrarsi. Sempre più coppie giovani affermano, con ottimi argomenti, che avranno un figlio quando ci saranno "tutte" le condizioni per mantenerlo in modo dignitoso, come merita. Spesso le condizioni prevedono, tra le altre, una stabilità lavorativa di entrambi i componenti della coppia e una residenza di proprietà. E questo inevitabilmente, per l'aria che tira oggi, comporta uno slittamento del progetto genitoriale a data da destinarsi. E ciò viene consentito dalle possibilità contraccettive che oggi sono disponibili. Per di più, le attività di controllo vanno spesso oltre la "iniziale" programmazione contraccettiva, estendendosi ai sempre più dettagliati e precoci mezzi di screening fetale.
Sgombriamo il campo da possibili giudizi o considerazioni di valore. Gli schieramenti a favore o contro un ragionamento come quello appena espresso attengono alla sfera ideologica personale. Le variabili in campo sono molteplici e la cultura della famiglia è cambiata inevitabilmente. A me interessa un altro livello di approfondimento. D'accordo, i figli sono sempre più spesso frutto di una scelta molto ponderata, ma io ci aggiungerei, in accordo  pieno con Saraceno, anche qualcosa di altro: il tema del desiderio. Non è affatto scontato, anzi, che chi controlla la propria fecondità in modo preventivo attui una scelta che contrasta o nega, rimandandolo, il desiderio di genitorialità. Il desiderio di un figlio c'è, ma viene contenuto, gestito, dalla ragion pratica e dalla visione moderna delle priorità della vita. Allora poi forse, quando viene il tempo della scelta che prevede il desiderio e coincide con esso, magari dopo tanti sacrifici, quel desiderio può diventare diretta espressione della persona che lo prova, ed assume una intensità e potenza diversi dalla accettazione della nostra predisposizione biologica alla fertilità. Il figlio desiderato, finalmente, può diventare l'appagamento di un sogno personale, la realizzazione di un percorso dell'individuo o della coppia. La procreazione come fattore di continuità generazionale diventa in parte secondaria, si tratta di "tuo figlio/a", colui che soddisferà "il" desiderio. A riprova di questo assistiamo alla terribile frustrazione delle coppie che, nel momento in cui effettuano la scelta, non riescono a realizzarla, scontrandosi con i limiti che la natura, matrigna, a volta impone, anche qui con un effetto paradossale del retropensiero "lo desidero quindi lo ottengo", che assomiglia molto ad un atteggiamento di natura consumistica. Molto altro si potrebbe dire al riguardo, per esempio sulle tecniche di fecondazione assistita che intervengono in soccorso della scelta e del desiderio frustrati.
Voglio però tornare a quanto mi attiene da vicino, quindi il tema disabilità.
Se più spesso oggi di un tempo i figli sono emanazione di un desiderio e di una scelta, quanto materiale psicologico i genitori  identificano in quel frugoletto che arriva, finalmente, dopo tempo e lunghe considerazioni? Quanto è investito il nuovo arrivo di aspettative riguardanti la dimensione individuale e sociale della personalità di ognuno dei due partner? Se vogliamo andare sullo psicologico, quale tipo di investimento narcisistico viene convogliato dal genitore sulla procreazione ("produzione?!") di un figlio, che nel suo esserci, non da lui richiesto, ha la responsabilità di soddisfare? A volte l'investimento è così grande, che l'"esserci" semplicemente, di heideggeriana memoria, non è sufficiente e il figlio diventa un (s)oggetto speciale, meraviglioso, incorruttibile. Saraceno dice che nella società di oggi è ritenuta quasi inaccettabile la morte di un bambino. Un tempo era la triste normalità e se ne parlava come di ineluttabile componente del destino. Adesso la vita è veramente molto più prevedibile e pensare ad un bambino comporta quasi in automatico immaginare di vedergli compiere tutti quei passaggi del ciclo di vita che lo porteranno ad una vecchiaia lontana e serena.
Fatte queste premesse, che non vanno però generalizzate, quando nasce un bambino difettoso, che succede? Che fine fa quel desiderio? Quale ferita narcisistica comporta? In alcuni casi lui non era uno degli altri figli, quello sfigato, che, nel numero, ci sta. Lui era, doveva essere, meravigliosamente aderente al  "mio" sogno, esclusiva opportunità di realizzazione del "mio" desiderio, diretta emanazione del "mio" progetto, senza compromessi.
Immagino solamente quale fatica ciò comporti per un genitore, nella solitudine in cui si sente catapultato a gestire ciò che non era previsto, voluto, lontanamente immaginato. Il figlio del "desiderio rimandato" assume, nascendo, una forma reale, a volte già difficile da riconoscere, nel caso di disabilità una forma anche distorta, rimaneggiata, deficitaria. A volte le energie impiegate per "riparare" il sogno sono tantissime e distolgono lo sguardo da quello che c'è, anche di normale. C'è in gioco, tanto, tantissimo.

E, diversamente da un tempo, in cui le famiglie vivevano nella corte, insieme, i genitori con figli con disabilità non possono usufruire del cuscino sociale su cui appoggiarsi  rappresentato dalla vicinanza, anche fisica, di qualcuno che può esserci nelle incombenze concrete, ma anche nel supporto, un po' grezzo ma efficace, della condivisione delle faccende della vita, dello sguardo di comprensione che alleggerisce il peso del destino. E tutto è più difficile. La "performance" chiama; bisogna andare.

Fratello unico

Un libro trovato per caso su uno scaffale di una libreria che sta per chiudere. Il titolo suona interessante anche perchè contiene una parola per me magica: "fratello". Ed ecco che entra prepotentemente nella toplist dei libri del momento visto che ho la cattiva abitudine di praticare la lettura in parallelo. L'argomento è quello giusto e noto e mi stupisco di non avere sentito parlare prima del libro. Karl parla in prima persona di sè e della sua esperienza con il fratello di Noah, autistico a basso funzionamento nato a metà degli anni sessanta. Si trattava di un periodo di scoperta della sindrome, che adesso, anche in considerazione di una diffusione consistente viene affrontata con metodi e terapie tra i più diversi e controversi, da quelli cognitivo comportamentali alle diete specifiche. Allora l'autismo era un campo di studio pressochè vergine con poche esperienze di cura efficace e molti  punti interrogativi senza una risposta. Nel libro una parte sicuramente interessante riguarda lo sforzo della famiglia di Karl e Noah di trovare una cura efficace per l'autismo attraverso l'inevitabile pellegrinaggio  da uno specialista ad un altro. E' così che possiamo accedere alla prospettiva di un genitore che a quei tempi si arrabattava, per fortuna non senza spirito critico, tra le varie proposte terapeutiche. Infatti i genitori di Karl sono "costretti" a fre i conti con i potenziali sensi di colpa generati dall'approccio psicodinamico di Bettelheim (La Fortezza vuota, 1967) volto a ricondurre gli esiti della sindrome ad una rapporto disfunzionale nella diade madre bambino, in cui "sentimenti materni di indifferenza, negativi o ambivalenti, si presentano quali spiegazioni dell'autismo infantile".  Oppure come pionieri della terapia ABA di Lovaas, scandinavo precursore degli approcci cognitivo comportamentali (compreso l'uso di avversivi fisici o elettroshock). Karl descrive in modo molto competente la fioritura di approcci per una sindrome pressochè sconosciuta ed incompresa (come oggi?).
Karl e Noah oggi
Veramente significativo il vissuto di sibling che si viene a dipanare nel racconto fino ad arrivare al disincanto della speranza che incontra la realtà. (sono volutamente vago per non svelare troppo la trama). Inoltre, Karl, pur descrivendo in modo chiaro le sue vicissitudini tipiche del sibling, non si definisce mai come prototipo del fratello, ma anzi assume un atteggiamento singolare: ci tiene molto ed a più riprese a sottolineare il fatto che lui è Karl con una propria identità indipendente dal fatto di essere fratello di Noah; non vuole essere "ridotto al fratello di...", anche se in alcuni casi potrebbe fargli molto comodo, ad esempio nel significare (o giustificare) la sua attrazione prima e dipendenza poi dalle sostanze stupefacenti. Karl non cerca scuse per la sua adolescenza turbolenta che ad un certo punto addirittura porta i genitori ad essere più preoccupati per lui che per Noah, anche se riconosce il fatto che la vita di famiglia sia stata condizionata pesantemente dall'autismo di suo fratello. In ogni caso ci tiene alla propria identità e se ne assume fino in fondo la responsabilità. Il finale va scoperto ma può bastare dire che Karl non smette, ancora oggi, di testimoniare la condizione di un autistico grave adulto e della mancanza di risorse e di attenzione per questa categoria di persone con disabilità.

Per chi vuole approfondire trova su YouTube un video documentario sulla famiglia di Karl e Noah girato a più riprese a distanza di molti anni. Alcune dichiarazioni sono sconvolgenti. Lo trovate sotto "60 Minutes Noah, part 1 e 2".