lunedì 9 marzo 2020

Il virus della solidarietà

L’emergenza coronavirus solleva tante questioni non solo sanitarie. Dal punto di vista sociale, la reazione della gente comune alle notizie spesso diffuse in modo poco adeguato, se non allarmistico, è stata intensa e molto diversificata, con molte sfaccettature comprese tra i poli  incuranza-panico. Dal mio punto di vista non è possibile catalogare i comportamenti delle persone, anche quelli più apparentemente irrazionali, per via della scarsa conoscenza del fenomeno che impone anche agli esperti di virologia molte cautele e poche certezze su cui orientare l’opinione pubblica. Per fare un esempio, sulla questione vaccini la comunità scientifica si è espressa in modo unanime e compatto, esiste una qualche “verità” a cui fare riferimento, e diventa più facile definire le posizioni sull’argomento accettabili o meno. Mi sembra importante, in questo clima di incertezza, che la posizione predominante ed istituzionale sia improntata alla prevenzione ed al contenimento del fenomeno epidemico, almeno fino a quando non sia individuata una profilassi che permetta di evitare l’affollamento dei reparti di terapia intensiva e la riduzione dei decessi.
Gli effetti di tale posizione istituzionale, basata anche sul mero dato numerico e sul calcolo di opportunità, sono molti e coinvolgono tutti i campi della vita sociale, produttiva ed economica del paese. Volendo scorgere in questo panorama a tratti desolante alcuni spunti positivi e di opportunità, credo sia importante sottolineare il fatto che il contenimento della diffusione del virus “costringe” le persone ad alzare lo sguardo oltre il proprio orizzonte individuale.
Per molti infatti le richieste e le restrizioni imposte dai protocolli nazionali o regionali sono vissute come distanti, almeno psicologicamente, dal proprio interesse particolare, non sono misure in cui viene percepita una emergenza diretta ed immediata. La richiesta implicita nella adesione a tali misure è di pensare ad altri che non siano nella nostra stretta cerchia di riferimento, ad altri che non conosciamo e che non conosceremo mai; inoltre il pensare a questi “altri” comporta per molti una privazione anche significativa di alcune libertà individuali, o un danno importante sul fronte economico e della redditività a breve termine (nel caso di un prolungamento della situazione sarà inevitabile trovare un bilanciamento tra le esigenze produttive e la necessità di contenimento del virus). Questo esercizio forzato di rinunciare al (molto) proprio a favore di altri lontani da noi è inconsueto nella società odierna, una società in cui, per prendere ad esempio il tema dei cambiamenti climatici, se brucia l’Australia, le persone in Italia rimangono dispiaciute il tempo del servizio televisivo sul koala bruciacchiato e poco più. La globalizzazione dei problemi non appare essere un elemento decisivo nel generare una reazione empatica o sensibile da parte delle persone concentrate sulle questioni della loro cerchia di interesse. Il coronavirus e la sua rapida diffusione ci offre quindi una opportunità sociale di spostare l’attenzione, anche se per poco, verso un orizzonte comunitario, in cui il benessere non è solo quello individuale ma un interesse collettivo a cui siamo tutti chiamati a concorrere. Si tratta di una sfida da raccogliere e che personalmente spero possa spostare anche parzialmente gli equilibri sociali in una direzione in cui la solidarietà verso chi è più debole ed in difficoltà, a prescindere che sia un parente o un amico, diventa una priorità ed un pensiero che abbraccia un orizzonte comunitario.

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