lunedì 16 marzo 2020

Fragilità diffusa

Cari colleghi, In questo nuovo scenario, sanitario, sociale ed economico, dettato della pandemia di coronavirus, la diffusione globale del rischio rende inevitabilmente più sfumati i confini tra “curanti”” e curati”.
Diversamente da altri momenti critici in cui è più facile definire chi è in difficoltà e chi è nelle migliori condizioni psicologiche, fisiche e ambientali per essere di aiuto, come ad esempio durante un terremoto, un incidente aereo, una alluvione, in questo momento storico penso sia difficile per chiunque collocarsi in una “zona di sicurezza” da cui potere dare il proprio contributo. Penso ad esempio a tutto il personale medico ed infermieristico che con abnegazione e generosità presta servizio negli ospedali e nei presidi medici; tutte queste persone sono continuamente esposte al contagio e, per di più, la sera tornano a casa dalle loro famiglie, senza sapere se portano con sé il rischio di farle ammalare. I dubbi, le preoccupazioni e il senso di precarietà sono trasversali, travalicano in modo a volte subdolo e pernicioso i confini di ruolo e si impadroniscono della tranquillità o a volte della parziale incoscienza con cui i curanti affrontano le crisi al fine di aiutare le persone che hanno più bisogno. Capita quindi che anche i medici, gli educatori e gli psicologi e psicoterapeuti abbiano la mente legittimamente occupata dalla preoccupazione rivolta alla propria famiglia, ai genitori anziani, ai figli, alle amicizie o conoscenze con problematiche sanitarie pregresse; Chi poi tra noi terapeuti non lavora in strutture pubbliche o in aziende, vede in modo poco chiaro i risvolti anche economici di questa situazione drammatica, che impatta anche su tutte le attività che coinvolgono i gruppi di lavoro (formazioni, supervisioni, gruppi di terapia), attività che inevitabilmente vengono rimandate a “data da destinarsi”. Tutto questo genera una sensazione che definirei di “fragilità diffusa” e che indubbiamente colpisce anche noi terapeuti (mi ci metto dentro io per primo) e che potrebbe, legittimamente, depotenziare i curanti in un momento in cui è forse ancora più importante mettere al servizio della comunità le proprie competenze e la propria esperienza nel lavoro con la relazione d’aiuto.
Che fare quindi? Come potere gestire una fisiologica ambivalenza ed una richiesta implicita dei pazienti (nel mio caso a volte esplicita) a non mollare, ad essere la base sicura a cui si possono affidare, ancora di più, in un momento di difficoltà come questo? Non ho una ricetta, ma voglio condividere quello che mi è venuto da fare quasi spontaneamente, senza accorgermene: stare ancora più in contatto con i colleghi, evitare di aggiungere all’isolamento preventivo richiesto anche quello “professionale”, confrontarsi anche più di prima rispetto a modalità di lavoro nuove, gestione dei pazienti, e, che non guasta, scambiare un saluto disinteressato, come modo di stare in contatto, ridurre le distanze, attivare momenti di ascolto, di conforto e solidarietà. Perché in fondo, in questo momento, non è così strano e sbagliato sentirsi ed essere, anche da terapeuti, “troppo umani”.

lunedì 9 marzo 2020

Il virus della solidarietà

L’emergenza coronavirus solleva tante questioni non solo sanitarie. Dal punto di vista sociale, la reazione della gente comune alle notizie spesso diffuse in modo poco adeguato, se non allarmistico, è stata intensa e molto diversificata, con molte sfaccettature comprese tra i poli  incuranza-panico. Dal mio punto di vista non è possibile catalogare i comportamenti delle persone, anche quelli più apparentemente irrazionali, per via della scarsa conoscenza del fenomeno che impone anche agli esperti di virologia molte cautele e poche certezze su cui orientare l’opinione pubblica. Per fare un esempio, sulla questione vaccini la comunità scientifica si è espressa in modo unanime e compatto, esiste una qualche “verità” a cui fare riferimento, e diventa più facile definire le posizioni sull’argomento accettabili o meno. Mi sembra importante, in questo clima di incertezza, che la posizione predominante ed istituzionale sia improntata alla prevenzione ed al contenimento del fenomeno epidemico, almeno fino a quando non sia individuata una profilassi che permetta di evitare l’affollamento dei reparti di terapia intensiva e la riduzione dei decessi.
Gli effetti di tale posizione istituzionale, basata anche sul mero dato numerico e sul calcolo di opportunità, sono molti e coinvolgono tutti i campi della vita sociale, produttiva ed economica del paese. Volendo scorgere in questo panorama a tratti desolante alcuni spunti positivi e di opportunità, credo sia importante sottolineare il fatto che il contenimento della diffusione del virus “costringe” le persone ad alzare lo sguardo oltre il proprio orizzonte individuale.
Per molti infatti le richieste e le restrizioni imposte dai protocolli nazionali o regionali sono vissute come distanti, almeno psicologicamente, dal proprio interesse particolare, non sono misure in cui viene percepita una emergenza diretta ed immediata. La richiesta implicita nella adesione a tali misure è di pensare ad altri che non siano nella nostra stretta cerchia di riferimento, ad altri che non conosciamo e che non conosceremo mai; inoltre il pensare a questi “altri” comporta per molti una privazione anche significativa di alcune libertà individuali, o un danno importante sul fronte economico e della redditività a breve termine (nel caso di un prolungamento della situazione sarà inevitabile trovare un bilanciamento tra le esigenze produttive e la necessità di contenimento del virus). Questo esercizio forzato di rinunciare al (molto) proprio a favore di altri lontani da noi è inconsueto nella società odierna, una società in cui, per prendere ad esempio il tema dei cambiamenti climatici, se brucia l’Australia, le persone in Italia rimangono dispiaciute il tempo del servizio televisivo sul koala bruciacchiato e poco più. La globalizzazione dei problemi non appare essere un elemento decisivo nel generare una reazione empatica o sensibile da parte delle persone concentrate sulle questioni della loro cerchia di interesse. Il coronavirus e la sua rapida diffusione ci offre quindi una opportunità sociale di spostare l’attenzione, anche se per poco, verso un orizzonte comunitario, in cui il benessere non è solo quello individuale ma un interesse collettivo a cui siamo tutti chiamati a concorrere. Si tratta di una sfida da raccogliere e che personalmente spero possa spostare anche parzialmente gli equilibri sociali in una direzione in cui la solidarietà verso chi è più debole ed in difficoltà, a prescindere che sia un parente o un amico, diventa una priorità ed un pensiero che abbraccia un orizzonte comunitario.